E se il Colosseo è stato «modificato»? Se il Tempio di Marte Ultore o quello di Venere Genitrice sono stati «cambiati»? Quanti segreti cela un rudere?
Quali risvolti storici possono emergere da colonne spezzate, volte crollate, pavimenti di mosaici ribaltati, cortine di mattoni lesionate? C’è tutto un retroscena scientifico oltre l’apparente degrado. Ad un occhio esperto, certo, possono rivelare dati fondamentali per ricostruire una inedita storia sismica di Roma nell’antichità. Cioè, rintracciare le testimonianze «dirette» di terremoti che le fonti letterarie non avevano mai raccontato prima.
LE PROVE
A svelarlo è lo studio condotto per quindici anni da Fabrizio Galadini ricercatore dell’Istituto nazionale di geologia e vulcanologia, che in stretta collaborazione con la Soprintendenza ai beni archeologici di Roma guidata da Mariarosaria Barbera, ha rimappato le tracce archeologiche di terremoti a Roma tra il VI e il IX secolo d.C. Arrivando ad una conclusione: quanto noi oggi vediamo è in parte il risultato di danni sismici, dal Colosseo al Tempio di Marte Ultore nel Foro di Augusto. «Le scosse sismiche hanno contribuito in misura massiccia a modificare il paesaggio urbano della Roma antica, alimentando la formazione di contesti di ruderi o comunque degradati – avverte Galadini – In sostanza, proprio per l’elevata vulnerabilità dei fabbricati di età plurisecolare, spesso privi di manutenzione per secoli o addirittura spoliati, è possibile che gli effetti dei terremoti del passato siano stati superiori a quelli meglio noti dalle fonti storiche relative ai sismi più recenti avvenuti nel 1703 e nel 1915». I risultati sono stati presentati per la prima volta al Museo di Palazzo Massimo, nel ciclo di conferenze del Fai.
LE FONTI
Le fonti scritte citano cinque terremoti per il periodo compreso tra il VI e il IX secolo (443, 484, 508, 801, 847) ma non sono riportati i danni specifici in riferimento a ciascun sisma. Le prove archeologiche completano ora l’informazione storica. «Le tracce più emblematiche riaffiorano da scavi archeologici recenti – dice Galadini – da cui sono emerse ingenti unità di crollo, veri e propri cumuli di macerie che testimoniano in modo inequivocabile del collasso improvviso degli edifici. Come dimostrano i sotterranei di Palazzo Spada, dove emergono porzioni di straordinari pavimenti decorati a mosaico di due ambienti disposti in giacitura in seguito al crollo repentino di un edificio sotto le scosse dei terremoti tra il 484 e il 508». Così come le macerie rinvenute nello scavo dell’Auditorium di Adriano a piazza Madonna di Loreto, nei sotterranei di Palazzo Valentini nell’area della piccole terme, e di Villa Medici.
Ma tracce «vistose» provengono dal Tempio di Venere Genitrice nel Foro di Cesare, e di Marte Ultore al Foro di Augusto, dove un frammento di colonna ha svelato in una incisione il nome di «Decius Venantius», lo stesso patrizio che sanò, a spese sue, gli ingenti danni del terremoto generati al Colosseo nel 484. L’Anfiteatro Flavio ha sofferto i terremoti del 443, 484-508, ma anche del 1349 col collasso delle arcate esterne nel settore meridionale.
L’EPICENTRO
«I terremoti del 484 e 508 ha generato danni a Roma, ma le indagini geologiche consentono oggi di ipotizzare che il terremoto si sia originato nel settore appenninico – riflette Galadino – Le indagini hanno consentito di riconoscere l’epicentro nella faglia del Fucino, nella zona di Avezzano, e gli scavi archeologici ad Alba Fucens hanno evidenziato la distruzione di questa antica città proprio tra V-VI secolo d.C.».
di Laura Larcan su ilmessaggero.it